di Daniela Degiovanni

– dott.sa  SOS Cure Palliative – ASL 21 – Casale Monf.

La “palliazione” esiste da sempre, nella sua accezione di sostegno caritatevole e misericordioso ai sofferenti. Non a caso il nome stesso deriva dal  pallium, cioè dal mantello di S.Martino, che con gesto umano aveva  aiutato un povero. Agli inizi dell’800, ad opera di benefattori ed organizzazioni francesi e inglesi, nacquero semplici strutture di ricovero per i viandanti sulle strade dei pellegrinaggi per i più bisognosi di cure e di assistenza, cui venne dato il nome di hospices.

Col passare degli anni la medicina, grazie agli straordinari progressi tecnologici e scientifici, ha in parte occultato quei valori del passato legati all’umanità e alla carità intesa come caritas cattolica: l’attivismo terapeutico di molti medici, molto spesso tendente all’accanimento terapeutico vero e proprio, ha generato nella comunità scientifica e nell’immaginario comune l’illusione che le malattie possano essere sempre sconfitte e che anche la morte possa essere rimandata a tempi sempre più lontani.

Da qui il fenomeno dell’ospedalizzazione dei morenti, nella speranza che lì “la morte possa essere guarita”; ma il contesto burocratico ed anonimo di molti nosocomi  può peggiorare notevolmente la qualità di vita dei malati terminali.

Sottratti alle figure amiche che hanno popolato la loro esistenza fino a quel momento, segregati in stanze asettiche così lontane dalla famigliarità e dalla consuetudine affettuosa delle mura domestiche, i malati possono sentire aumentare l’oppressione determinata dalla loro malattia, possono avvertire come ineluttabile la fine e insignificante il periodo che la precede.

L’ospedale, nella sua accezione odierna, non è né logisticamente né culturalmente preparato ad accogliere e ad accompagnare in maniera adeguata un malato in fin di vita.

Nacque negli anni 50 in Inghilterra, ad opera di Cicely Saunders, infermiera di un grande ospedale londinese ,l’idea portante di un movimento che venne in seguito definito il “Movement Hospice”, che per la vastità dei contenuti etici, sanitari, umanitari e sociali, si diffuse nel mondo anglosassone come un vero e proprio momento filosofico, il cui perno era rappresentato dalla centralità del paziente terminale, dalla risoluzione dei suoi bisogni fisici (trattamento adeguato del dolore e di tutti gli altri sintomi) e psico-sociali e dal rispetto della sua autodeterminazione.

Dietro a questa definizione si nascondeva una vera e propria rivoluzione nel mondo della medicina: il “paternalismo” medico, cioè quella secolare tradizione  che dava da sempre ai medici il diritto di decidere del bene e del male del paziente, indipendentemente dalla sua volontà, veniva abbattuto. Il malato inguaribile veniva riconosciuto nella sua complessità di soggetto morale, unico e insostituibile, con diritti inalienabili, che dovevano essere rispettati in ogni momento della sua vita residua.

Tra questi diritti, il più importante e spesso trascurato è quello dell’autodeterminazione, cioè di poter far valere le sue volontà e di poter far rispettare i suoi desideri fino all’ultimo momento: di poter, cioè, avvicinarsi all’ultimo momento con la consapevolezza di quanto gli sta accadendo, tra persone preparate e motivate ad “accompagnarlo”, nel rispetto di quello  che è stato il suo stile di vita , della sua “biografia”.

E’ nell’ambito di questo movimento di pensiero che viene a collocarsi l’Hospice, che non è solo una struttura muraria su misura per affrontare adeguatamente i bisogni del malato terminale  e della sua famiglia: esso deve invece essere visto come il contenitore materiale di una disciplina ben più vasta, che è quella delle Cure Palliative, la cui filosofia, riportata sopra, ha la finalità di mantenere la miglior  qualità di vita residua al malato terminale fino all’ultimo  momento, al proprio domicilio, tra gli affetti e le cose più care, nel luogo dei propri vissuti e della memoria.

Dove questo tipo di assistenza non fosse praticabile, per problemi logistici o di carenza di famigliari idonei, l’Hospice viene a collocarsi come il luogo sostitutivo della casa e per tale motivo deve essere il più emotivamente e materialmente possibile somigliante ad essa.

Le stanze devono essere confortevoli, perché’ all’interno di esse il malato e i suoi cari devono avere la possibilità di scambiarsi gli ultimi gesti d’amore, i ricordi, le tenerezze, lontano da sguardi indiscreti e anonimi; le regole non devono essere rigorose e limitative, perché’ non c’è un orario che non sia consentito a chi di tempo davanti ne ha troppo poco; le cure non devono essere supportate da un alto livello tecnologico, perché’ l’attenuazione e l’eliminazione dei sintomi fisici si può ottenere con interventi di grande efficacia e di scarsissima invasività; il livello assistenziale deve essere molto alto e praticato da personale medico, infermieristico e parasanitario(psicologi, fisioterapisti, operatori tecnico-assistenziali, volontari) fortemente motivato e competente. Le Cure Palliative non si inventano: prevedono una formazione intensa, senza la quale nessun  operatore è in grado di incidere efficacemente sul processo del morire; esse non sono semplicemente una medicina per il morente, ma una medicina per l’uomo, che rimane un vivente fino alla morte e che a questo traguardo deve poter arrivare con dignità.